OpernStudio e OperaStudio: strategie e prospettive

Intervento presentato a Milano il 6 giugno 2017 in occasione dell’incontro “Prospettive per l’AFAM”.

Il presente intervento vuole essere un racconto, più che una illustrazione tecnica e ordinata, della esperienza maturata negli ultimi tre anni al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Esperienza che non esito a definire avventurosa e il cui modello non so neppure se possa essere esportato. Ad ogni buon conto, ritengo che il percorso intrapreso per realizzare il nostro esperimento contenga spunti di lavoro e -forse- qualche idea che vale la pena di essere condivisa, anche al fine di avviare una riflessione generale sugli  «OperaStudio», argomento tanto interessante quanto trascurato in Italia.

Attraverso la mia esperienza professionale ho avuto modo di venire a contatto con realtà formative e produttive svizzere, tedesche, britanniche, giapponesi, coreane e statunitensi. Gli OperaStudio di quei paesi hanno molte differenze fra loro, ma sono accomunate da una caratteristica: sono imprese bicefale in cui giovani allievi di canto teatrale frequentano mediamente uno/due anni un corso di specializzazione gestito da un istituto di alta formazione e debuttano titoli nel cartellone di un teatro partner del territorio. Il debutto può riguardare ruoli protagonisti (solitamente seconde compagnie), molto spesso ruoli comprimariali e talvolta anche compagini corali. A seconda delle dimensioni, a fianco dei corsi per cantanti possono essere attivati anche indirizzi per maestri sostituti, professori d’orchestra, direttori d’orchestra, registi. In ogni caso le giovani maestranze degli OS vengono contrattualizzati per gli spettacoli con scritture professionali a costo contenuto o con borse di studio diventando perciò le prime concrete occasioni d’inserimento in ambito produttivo organizzato e altamente professionalizzato.

Le istituzioni di governo promuovono gli OS attivandone i programmi presso le strutture scolastiche preposte. I teatri coinvolti possono in questo modo beneficiare di sovvenzioni apposite. In taluni casi sono addirittura obbligati -pena il decadimento di parte dei contributi- a riservare parte dei contratti e della programmazione agli OS. È da dire, infine, che spesso questi percorsi vengono in ogni caso percepiti dalle istituzioni teatrali come risorse artistiche di buona qualità a cui attingere, anche al fine di contenere i costi.

In buona sostanza, in molti Paesi gli OS saldano due necessità -economia di spesa e praticantato artistico- altrimenti separate.

In Italia, paese in cui l’opera è nata e costituisce imprescindibile patrimonio culturale, gli OS non esistono. Perché?

Innanzitutto ci si scontra con una diffidenza storica delle imprese di spettacolo: i teatri pubblici[1] non sono mai stati incentivati a realizzare alleanze organiche con i conservatori di musica. E c’è da dire che neppure il pubblico, storicamente molto polarizzato e reattivo, è culturalmente predisposto ad un’offerta caratterizzata da maestranze esordienti. Il panorama negli ultimi lustri è profondamente mutato, e come conseguenza dei tagli al Fondo Unico Spettacolo e di una crisi finanziaria permanente, le Accademie annesse alle Fondazioni Lirico Sinfoniche hanno cominciato ad acquisire nei cartelloni degli “enti-madre” un’evidenza del tutto impensabile fino alla fine del secolo scorso. Il fenomeno è tutt’ora in atto e in via di incremento, con risultati molto differenti a seconda delle piazze.[2]

Ma, al di là delle quattordici Fondazioni Lirico-Sinfoniche che hanno mezzi e convenienze per sostenere Accademie autonome, rimane incolto un enorme terreno rappresentato da ventinove Teatri di Tradizione, da molti Festival e dalle residue Imprese Liriche. Eppure le due necessità sopra citate (l’indebolimento economico dei teatri e il praticantato artistico degli allievi di conservatorio) sono fenomeni in progressiva crescita in questi anni di contrazione economica.

Né i conservatori sono esenti da colpe sull’aergomento: sembra paradossale, ma anche i i nostri istituti storicamente non hanno fatto a gara per interessarsi a forme di OS. I motivi sono molti. Basti pensare, ad esempio, alla centralità data alla pratica strumentale rispetto al teatro musicale, nonostante la lirica rappresenti per il musicista praticante la quasi totalità delle possibilità occupazionali. Si pensi poi ai limiti normativi che hanno governato i conservatori fino alla legge 508. Si osservi come la vecchia organizzazione del Conservatorio in “Scuole” di strumento e canto, rigidamente separate, abbia significamente osteggiato -negli anni- le progettualità trasversali. Si consideri, infine, come un monte ore angusto e senza risorse aggiuntive incentivi implicitamente l’invariabilità dell’offerta.

Tutto ciò ha avuto come esito un colpevole, evidente, immobilismo. Immobilismo che non ha prodotto danni irreversibili fin quando è sopravissuta una pratica teatrale viva e diffusa sul territorio (il bacino di riferimento prevalente era quello dei teatri di tradizione) che consentiva ai giovani migliori l’attuazione di percorsi “di bottega” per la crescita graduale. Oggi però diagnostichiamo l’agonia di tale sistema: i tempi di produzione sono talmente ristretti che i giovani dovrebbero cominciare a lavorare con abilità di base nemmai sperimentate. E non bisogna neppure sottacere che le direzioni artistiche sovente si adagiano su comode pratiche monopolistiche di casting che consentono di rischiare poco a fronte di impegni di selezione nulli.

L’assenza di opportunità per gli esordienti, coniugandosi alla scarsità di risorse del sistema produttivo, crea addirittura percorsi surrettizi agli OperaStudio: tali sono le fioriture incontrollate di pseudo accademie che garantirebbero (almeno sulla carta) il debutto; tali sono quei concorsi che, in taluni casi, si sono trasformati in vere agenzie di collocamento artistico low-cost. Tutto questo nel disinteresse dei Conservatori di Musica.

E l’impatto economico e sociale del settore non sarebbe neppure così trascurabile. Infatti, nel momento in cui i livelli di occupazione teatrale stabile in Italia crollavano, si aprivano nuove opportunità d’impiego interessanti dal punto di vista numerico, con maggiori unità impiegabili rispetto al passato. In sostanza, di fronte alla contrazione economica, la protezione corporativa -che tendeva a replicare uniformemente scelte di casting nei cartelloni delle diverse città- si è aperta, lasciando maggiori spazi di inserimento per i giovani.

Partendo da tali premesse, ci si troverebbe dunque al cospetto d’un vero e proprio enigma labirintico: all’esterno si pone una domanda virtualmente consistente (il mondo del teatro lirico istituzionale) mentre al centro è imprigionata una offerta oggettivamente ricca (gli allievi delle nostre istituzioni). In mezzo si trova un contesto che si dimostra aggrovigliato perché non progettato per funzionare come sistema. La soluzione potrebbe dunque essere il districo del contesto da parte dei Conservatori, che dovrebbero assumere l’iniziativa del collegamento fra dentro e fuori. Come uscirne?

Parafrasando Umberto Eco,[3] errore comune è cercare la strada pensando il labirinto. Bisogna piuttosto pensare col labirinto e dentro al labirinto: è infatti impossibile uscire quando si pensa il modello di pensiero del labirinto, creato per disorientare. Dedalo, il maestro del labirinto, metteva alla prova quella particolare forma d’intelligenza che in Grecia chiamavano mètis:

«quel tipo particolare di intelligenza che, invece di contemplare essenze immutabili, si trova direttamente implicata nelle difficoltà pratiche, con tutti i suoi rischi, di fronte a un universo di forze ostili, sconcertanti perché sempre mutevoli e ambigue. È un’intelligenza impegnata nel divenire»[4] che si concentra «sull’efficacia pratica, sulla ricerca del successo nel campo dell’azione: molteplici abilità utili alla vita, perizia dell’artigiano nel suo mestiere, artifici magici, uso di filtri e di erbe, stratagemmi di guerra, inganni e finzioni, astuzie di ogni genere».[5]

Tralasciando (forse) le arti magiche e i filtri d’erbe, tutti coloro che si destreggiano nella palude istituzionale, legislativa e procedurale italiana sanno di dover adoprare quotidianamente la mètis per ottenere un qualsiasi risultato. A meno che non ci si adagi in un contesto che non ci soddisfa o ci si fermi, annegando nell’inazione.

Ma, per ragionare col labirinto, bisogna dire che -nel frattempo- il caso, la tyche, sembrava aver disposto alcune pedine interessanti. Innanzitutto, la legge 508 (Art. 2 comma 4) stabilisce che i Conservatori di musica sono «sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale e svolgono correlate attività di produzione». In questo comma troviamo un profondo cambiamento rispetto al passato. Fino alla 508 si era essenzialmente soggetti alle funzioni delineate dal Regio Decreto 31 dicembre 1923, n. 3123 (Art. 4): «Le scuole ed istituti d’arte hanno il fine di addestrare al lavoro e alla produzione artistica». Non v’è chi non possa comprendere la sostanziale differenza tra “addestramento alla produzione” e “produzione”. Alla lettera, perciò, i Conservatori con la 508 hanno assunto -fra l’altro- compiti in qualche misura sovrapponibili (e non semplicemente tangenti) a quelli dei teatri, dei festival, delle stagioni musicali e società di concerti. Certo, si tratterebbe di specificare meglio il significato esatto del sostantivo “produzione”, concetto superficialmente dato per acquisito e stabilizzato nella nostra epoca: in maniera semplicistica, nel caso di OS si può parlare di produzione quando il soggetto (in questo caso l’istituzione conservatorio) crea un oggetto (il prodotto artistico) con un valore (non necessariamente economico e materiale) innestabile nel segmento di mercato del teatro partner (il pubblico delle sue Stagioni operistiche). Va da sé che, con tale impostazione, la produzione assume un profilo esorbitante rispetto al “saggio del conservatorio” curricolare, il quale -in ogni caso- rimane elemento imprescindibile nella formazione di tutti gli allievi (con funzione di addestramento).

Fatta questa premessa, e detto a chiare lettere che la 508 è la tipica “riforma italiana a costo zero”,[6] e che i conservatori non hanno risorse economiche e strumentali che consentano di sostenere vere produzioni teatrali,[7] bisogna aggiungere che nel 2014 la riforma Bray del Mibact[8] gettava i semi per incentivare pratiche innovative nell’offerta artistica delle istituzioni finanziate attraverso il FUS. In particolare, nella nostra ottica, risultano molto interessanti i criteri di valutazione delle programmazioni -divenute, tra l’altro triennali- dei Teatri di tradizione esplicitati nell’Allegato B, alla Tabella 12[9].

ASSE OBIETTIVO STRATEGICO OBIETTIVO OPERATIVO FENOMENO
PROGETTO 1. Qualificare il sistema di offerta Sostenere la qualità del personale artistico Qualità della direzione artistica
Qualità professionale del personale artistico e/o degli artisti ospitati
Sostenere la qualità del progetto artistico Qualità artistica del progetto
Innovare l’offerta Innovatività dei progetti e sostegno al rischio culturale
Organizzazione di corsi e concorsi
Stimolare la multidisciplinarietà Multidisciplinarietà dei progetti
2. Sostenere, diversificare e

qualificare la domanda

Intercettare nuovo pubblico Rapporti con università e scuole e avvicinamento dei giovani
Incrementare la capacità di fruizione Interventi di educazione e promozione presso il pubblico
Apertura continuativa delle strutture gestite
SOGGETTO

 

9. Valorizzare l’impatto mediatico e il progetto di promozione Rafforzare la strategia di promozione Strategia di comunicazione (sito internet, campagna di comunicazione, nuovi media e social network, dirette streaming degli spettacoli, ecc. )
10. Sostenere la capacità di operare in rete Incentivare reti artistiche e operative Integrazione con strutture e attività del sistema culturale
Sviluppo, creazione e partecipazione a reti nazionali e internazionali

La tyche in quel periodo sembrava perciò volgere all’ eutychìa, per dirla con Aristotele: nel medesimo scorcio di mesi, infatti, il direttore artistico del Teatro Comunale di Treviso stabiliva di inserire nella stagione d’opera autunnale la ripresa d’uno spettacolo allestito dal Conservatorio di Venezia e andato in scena per la prima volta nel cortile monumentale di Palazzo Pisani. Si trattava dell’ “opera cinese” in un atto Il gioco del vento e della luna del compositore Luca Mosca, scritta appositamente per un gruppo (francamente formidabile) di allievi presenti nella istituzione quell’anno accademico.

Fernanda Girardini e Paolo Ingrasciotta
ne Il gioco del vento e della luna, Treviso, dicembre 2015

Nel 2014 a Venezia già esisteva, dunque, un tavolo in cui Teatro di tradizione e  Conservatorio ragionavano di produzione ed allestimento. Quando è entrata in vigore la riforma, assieme al direttore artistico del teatro Gabriele Gandini e al direttore del Conservatorio Franco Rossi abbiamo intuito che, mettendo al servizio l’uno dell’altro risorse già presenti nelle reciproche programmazioni, avremmo potuto rispondere a molti dei requisiti indicati dal decreto Valore Cultura. Le risorse (evidenziate graficamente con sfondo bianco) riguardano sia l’asse del “progetto” sia quello del “soggetto”, toccando a titolo diverso tutti e quattro gli obiettivi strategici. Non entro nel dettaglio, ma è evidente che un conservatorio di musica italiano nel campo dei titoli rari e della musica contemporanea, nel settore della educazione, nella partecipazione a reti nazionali ed internazionali, nella specificità dei suoi contatti, possiede un notevole patrimonio che un teatro può costituire solo mettendo in campo onerosi investimenti a lungo termine. Evidente, dunque, il vantaggio -anche di carattere economico- che ad un teatro in sintonia con la riforma Bray deriverebbe da un’alleanza organica con un conservatorio.

Coraggiosamente, le due istituzioni hanno perciò pensato di realizzare un protocollo di collaborazione riguardante sei  titoli in tre anni (tre di repertorio e tre contemporanei, di cui due nuove commissioni): Il gioco del vento e della luna (Luca Mosca), Convenienze e inconvenienze teatrali (Gaetano Donizetti), Aura (Luca Mosca), Giovedì grasso/campanello (Gaetano Donizetti, nuova trascrizione dall’autografo), Atlas 101 (Giovanni Mancuso) e Cecchina o sia la buona figliola (Niccolò Piccinni). Nel 2017 -in via sperimentale- il protocollo si è addirittura esteso al coro e ai comprimari degli altri titoli del cartellone trevigiano. In parallelo continuavano anche le coproduzioni (due titoli per anno) con la Fondazione del Teatro La Fenice: Le Cinesi (Cristoph Willibald Gluck), Il ritorno dei Chironomidi (Giovanni Mancuso), Giulietta e Romeo (Niccolò Zingarelli), Barabau/L’Aumento (Vittorio Rieti e Luciano Chailly). Per ordinare tutta la materia, e per mettere a sistema l’intensa attività di produzione programmata, si è dunque deciso di denominarla OperaStudio del Conservatorio Benedetto Marcello, con l’implicito vantaggio di rendere immediatamente riconoscibile, all’esterno, questo tipo di attività, molto qualificante. Voglio aggiungere che la progettualità è stata premiata dal Mibact con un innalzamento della quota annuale FUS al teatro di Treviso, e che il Conservatorio di Venezia ormai percepisce come assett strategico OS, mentre gli allievi migliori si vedono riconosciuti veri e propri contratti professionali che costituiscono incentivo alla crescita individuale e avvìo alla professione.

Lo sforzo -ancora abbondantemente in corso- è di regolamentare OperaStudio, che nel frattempo è stata riconosciuta dal Consiglio Accademico del Conservatorio di Venezia anche sotto la specifica di “Corso libero”.

Due, a mio avviso, le criticità principali emerse da questi tre anni di esperienza: 1) la compatibilità con il rigore dei calendari di lezione degli allievi; 2) la tecnica di selezione, che deve contemperare (fin dalla scelta del titolo) la necessità di qualità artistica del teatro partner con la necessità di centralità delle maestranze di provenienza interna. La sfida quotidiana è appunto quella di riuscire a realizzare un buon equilibrio fra le due componenti, tale da non deprimere l’offerta artistica né snaturare le peculiarità delle scuole interne al Conservatorio.

In apertura sollevavo dubbi sulla esportabilità del modello: l’intraprendenza del Conservatorio di Venezia ha spinto a trovare una via d’uscita, ma sembra che il contesto esterno, il labirinto, stia nuovamente per mutare. Parrebbe infatti intenzione dell’attuale governo Gentiloni approvare una nuova legge sulla musica, e non sappiamo se la provvida impostazione di Bray in materia di triennalità e contenuti verrà riaffermata.

Certo: sarebbe troppo sperare in un provvedimento congiunto a favore degli OperaStudio che faccia colloquiare Mibact e Miur e che riconosca valore istituzionale a questi percorsi, anche in termini di razionalizzazione. Dunque rimaniamo in attesa di capire, augurandoci di non dover ancora attingere a quelle preziose riserve di mètis che giacciono in ogni docente di Teoria e tecnica dell’interpretazione scenica.

Francesco Bellotto

 

[1] Faccio riferimento alla pur sempre vigente categorizzazione della legge 800 del 1967 e della legge 163 del 1985.

[2] Voglio qui citare, per esempio, due casi di eccellenza: l’Accademia della Scala di Milano e l’Accademia del Maggio musicale fiorentino dove le sensibilità accese di personalità come quelle di Alexander Pereira, Gianni Tangucci e Pierangelo Conte hanno organicamente aperto agli allievi accademici il casting delle produzioni maggiori.

[3] Cfr. la prefazione al libro di Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, Frassinelli

[4] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari, Laterza, 2005,  p. 33.

[5] Ibidem, p. 3.

[6] Intendo con questa locuzione un provvedimento legislativo che assegna alle istituzioni nuove funzioni e compiti senza peraltro provvedere al finanziamento dei nuovi segmenti di pertinenza.

[7] La situazione classica che i docenti di Teoria e tecnica dell’interpretazione scenica devono affrontare quando si progetta un allestimento è di dover noleggiare tutto quel che esula dalla sfera puramente artistico/musicale, a cominciare dallo spazio, passando per i tecnici e le attrezzature, senza ovviamente tralasciare quanto indispensabile al decoro scenico, costumi e financo le minute attrezzerie. Gli OperaStudio nordamericani e giapponesi, ad esempio, hanno invece a disposizione dei veri e propri teatri con maestranze e magazzini operativi.

[8] Legge voluta e delineata dal ministro Massimo Bray nel 2013 e divenuta decreto con titolo “Valore Cultura” nel 2014, sotto il ministero Franceschini.

[9] D. L. 1 luglio 2014: Nuovi criteri per l’erogazione e modalita’ per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163, GU Serie Generale n.191 del 19-08-2014, Suppl. Ordinario n. 71, p. 51.

La riforma dell’istruzione musicale superiore in una prospettiva europea

Intervento presentato a Milano il 6 giugno 2017 in occasione dell’incontro “Prospettive per l’AFAM”.

(Qui il pdf delle slides utilizzate durante l’intervento)

Correva l’anno 1999: anno della legge 508 (che determina la riforma del nostro settore), della 509 (relativa invece all’Università) e anno della dichiarazione di Bologna.
E’ nel 1999 che il destino della nostra formazione superiore si incontra e si intreccia con quello della formazione superiore in Europa.
Il ministro che firma la 508 è Luigi Berlinguer, e non è un caso.

Berlinguer, in quanto ministro della pubblica istruzione dell’Italia, era stato uno dei ministri, con Germania, Inghilterra e Francia, che si erano incontrati l’anno ecedente a Parigi alla Sorbona per discutere insieme della Convenzione di Lisbona del 1997 .
La Convenzione di Lisbona è un documento sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore in Europa e che, partendo dal riconoscimento dei titoli di studio, punta a creare uno spazio europeo di mobilità: quindi possibilità per gli studenti di spendere il proprio titolo ovunque in Europa e allo stesso tempo garanzie sul riconoscimento dei periodi di studio all’estero. Ovviamente il valore di tutto non è solo nella possibilità di muovere i giovani, c’è un valore superiore, che è quello di andare verso una Europa sempre più unita e perciò sempre più forte. C’è l’obiettivo di formare una generazione di cittadini sempre più consapevolmente europei.
Attenzione però che la Convenzione di Lisbona viene decisa da UNESCO e Consiglio d’Europa, è come se idealmente in qualche modo già dall’inizio i confini travalicassero quelli dell’Europa.

Comunque il titolo della Dichiarazione di Bologna è: “Lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore”, e con questa Dichiarazione viene dato il via ai lavori del processo di Bologna.
La scadenza che i ministri dell’istruzione si danno per creare lo spazio europeo dell’istruzione superiore è il 2010.
Nella slide vedete i principali obiettivi del Processo di Bologna.
Le parole chiave sono Armonizzazione dei titoli di studio, sistema con due cicli principali, sistema dei crediti, promozione della mobilità, valutazione della qualità. La Dichiarazione di Bologna venne firmata da 29 paesi.
Il cammino dal 1999 ad oggi è segnato da una serie di conferenze interministeriali, ognuna delle quali ha cercato di fare un passo in avanti verso la creazione di questo Spazio Europeo.

Queste sono le interministeriali che si sono susseguite:
Accanto ad alcune ho aggiunto qualche parola chiave che mi è sembrata particolarmente significativa nel nostro discorso presa dai comunicati elaborati da ciascuna conferenza, documenti che sono estremamente rilevanti perché sono sottoscritti dai governi e ne orientano le scelte politiche e strategiche.
Nel 2010 nasce ufficialmente lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. I firmatari della Dichiarazione di Bologna, che inizialmente erano 29, sono diventati 47 nel 2010.

L’ultima conferenza è stata quella di Yerevan nel 2015, nella quale si riafferma la visione ispiratrice della Dichiarazione di Bologna di uno Spazio Comune dell’Istruzione Superiore all’interno del quale i diversi paesi con tradizioni politiche, culturali e accademiche diverse lavorano insieme, con obiettivi condivisi e impegni comuni. La dimensione di riferimento non è più solo quella europea e sono sempre più i paesi extra- EU che si interessano al processo di Bologna. Le nuove parole chiave sono: inclusione – comprensione interculturale – pensiero critico – tolleranza – valori democratici e civili.

Accanto ai compiti tradizionali dell’istruzione superiore, che sono insegnare, quindi trasmettere conoscenza, e fare ricerca, quindi creare nuova conoscenza, si mette in evidenza una terza missione. Che in realtà è solo un diverso atteggiamento mentale: vivere la nostra professione con la consapevolezza del ruolo che l’istruzione superiore ha nella società.

La prossima conferenza sarà nel 2018, a vent’anni dall’incontro alla Sorbona, e sarà di nuovo a Parigi. Quindi con la Dichiarazione di Bologna (1999) si mette in moto un meccanismo che produce una serie di decisioni vitali per tutto il sistema dell’istruzione superiore in Europa, e per il sistema della formazione musicale.
La Dichiarazione di Bologna è stata un terremoto, peggio, uno tsunami per i Conservatori europei.

Molti conservatori si muovevano in una sorta di territorio ambiguo e non ben definito, e la Dichiarazione di Bologna venne vista sul momento come una minaccia in quanto sembrava escludere una parte delle istituzioni dal settore della formazione superiore. Ma era vista come una minaccia anche dalle istituzioni che erano sicuramente eleggibili a rilasciare titoli di primo livello, perché non era per nulla sicuro che avrebbero potuto rilasciare anche titoli di secondo livello. Erano molto poche le istituzioni per le quali era chiaramente garantita la possibilità di rilasciare titoli di primo, secondo e terzo livello.

Il desiderio prevalente nei Conservatori europei era in realtà continuare la propria attività di insegnamento tradizionale, continuare a rilasciare gli stessi titoli “professionali” del passato, perché tutto questo aveva funzionato bene per generazioni e generazioni di musicisti. A sentirsi particolarmente minacciati erano i paesi dell’Europa meridionale.

E’ a questo punto che l’Associazione Europea dei Conservatori entra in gioco.

L’AEC era stata fondata nel 1953, per sviluppare i rapporti tra Conservatori in Europa, e soprattutto con i paesi dietro la cortina di ferro; la sede era in Svizzera, e aveva due presidenti, uno per l’Europa occidentale e uno per l’Europa orientale. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1990, si passò alla presidenza unica.
Arriviamo al 1999. Durante il congresso annuale dell’AEC tenutosi a Bucarest, i membri provenienti dai paesi dell’Europa meridionale chiesero un dibattito di emergenza sulla Dichiarazione di Bologna e sulle sue implicazioni. Il problema centrale era il diritto per i conservatori europei di rilasciare titoli di primo e secondo livello come le università.

Venne quindi elaborata una Dichiarazione nella quale:

-si accoglieva il principio dei due cicli;
-si affermava la parità di dignità tra gli studi universitari e quelli svolti nei conservatori di musica;
-si sostenevano i conservatori di Spagna, Portogallo, Italia e Grecia affinché i rispettivi governi riconoscessero questa parità di dignità;
-l’associazione metteva a disposizione dei singoli paesi l’esperienza dei propri membri nella valutazione e nell’assicurazione della qualità dei corsi di studio in musica.

Questo documento fu il primo di una serie di documenti elaborati e diffusi dall’AEC e connessi col Processo di Bologna e con tutti gli step successivi che sono stati segnati dalle varie Conferenze di cui abbiamo parlato prima. E il ruolo dell’AEC è stato molto rilevante sia nella fase di transizione che negli sviluppi successivi.

L’implementazione del Processo di Bologna non è stata cosa facile. Dopo una prima opposizione nel tentativo di conservare le proprie strutture tradizionali, si è poi arrivati gradualmente in tutti i paesi d’Europa a strutture in più cicli.
Vi parlavo prima della reazione sull’immediato dei conservatori europei.
Da questo magma in movimento nasce una generazione di musicisti/didatti i quali vedono nel processo non un’imposizione burocratica ma un’opportunità, e iniziano a lavorare a nuovi curricula da adottare all’interno dei conservatori europei post-riforma. L’AEC ha cercato di incoraggiare questo fenomeno positivo collaborando allo sviluppo dei Risultati di Apprendimento (Learning Outcomes) per i diversi cicli. Nel 2004 viene pubblicato un documento per il primo e il secondo ciclo.

Molti di voi si ricorderanno un importante Convegno che si tenne proprio qui a Milano nel 2005, “Musicisti domani: La riforma dei Conservatori dalla sperimentazione all’ordinamento”. Nel corso di questo Convegno vennero presentati proprio i “Risultati di apprendimento” elaborati dall’AEC, i quali erano l’applicazione nello specifico ambito musicale dei descrittori dei titoli di studi adottati in sede europea (Descrittori di Dublino).

Sicuramente tutti voi avete molto chiaro il DPR 212 del 2005. Sicuramente ancora più chiaro avete il documento di quest’anno (2017) col quale il ministero ha fornito alle istituzioni AFAM indicazioni precise per l’istituzione dei corsi e queste indicazioni fanno chiaramente riferimento ai descrittori di Dublino. Il titolo del documento è:
CRITERI PER UNA VALUTAZIONE OMOGENEA DEGLI ORDINAMENTI
DIDATTICI DEI CORSI DI STUDIO FORMULATI AI SENSI DEL D.P.R. 212/05
E’ scritto che i risultati di apprendimento attesi vanno indicati “anche con riferimento al sistema di descrittori dei titoli di studio adottato in sede europea”.

Vi ricordate le parole chiave che avevo evidenziato a proposito delle conferenze di Berlino e Bergen?
Cosa era accaduto:
Con la dichiarazione di Bologna era stata introdotta una struttura a cicli, ma presto ci si rese conto che non era sufficiente, e che questa struttura doveva essere supportata da maggiori dettagli sui risultati di ciascun ciclo, se si volevano raggiungere gli obiettivi di trasparenza, riconoscibilità dei titoli e mobilità accademica. In altre parole, non basta dire che la formazione superiore si deve articolare in un primo ciclo e in un secondo ciclo (e poi in un terzo) affinché poi un titolo sia riconosciuto in tutti i paesi. Come facciamo a dire che un diploma accademico di primo livello, magari in pianoforte, conseguito in Italia o Francia deve valere quanto un diploma accademico conseguito in Austria o in Olanda. Bisogna che i due titoli siano in qualche modo comparabili con riferimento a ciò che si sa e si sa fare a conclusione degli studi. E quindi si decise di definire cosa bisogna sapere e saper fare a conclusione di ciascuno ciclo.
Se noi vogliamo che i nostri titoli siano riconosciuti in Europa, non basta un nome, diploma accademico di primo livello, o di secondo, e di domani di terzo. Serve che a conclusione di quel percorso di studi i giovani abbiano acquistato competenze comparabili. La nostra autonomia è nel definire la strada specifica che vogliamo che i nostri giovani seguano per acquisire quelle competenze.

Questa è la sintesi di ciò che è avvenuto in quegli anni: 2003 – 2004 – 2005.

Vedete che nel 2007 l’AEC ha pubblicato i risultati di apprendimento per il terzo ciclo.
L’impegno dell’AEC verso la ricerca artistica è continuato negli anni successivi, ad esempio dando vita a una Piattaforma Europa per la Ricerca Artistica in Musica.

La storia continua. Nel 2006 nasce in Italia l’ANVUR, la nostra Agenzia nazionale di valutazione, come conseguenza della conferenza di Bergen, 2005, e le linee guida per l’assicurazione della qualità alle quali si attiene sono quelle approvate dai ministri a Bergen. Alla base c’è l’idea che affinché possa esserci il riconoscimento dei titoli non basta che la descrizione dell’offerta formativa sia chiara e trasparente (i risultati di apprendimento), ma deve esserci la garanzia che ciò che è previsto sulla carta venga anche attuato in concreto.

Anche sull’assicurazione della qualità l’Aec ha compiuto un grosso lavoro, sempre con lo scopo di fornire ai propri membri strumenti di lavoro efficaci nella direzione delle indicazioni europee, e sempre traducendole nel nostro specifico linguaggio di istituti di formazione musicale superiore.

L’ultimo atto rilevante è la nascita di MusiQuE – Music Quality Enhancement, una Agenzia indipendente per l’assicurazione della qualità e l’accreditamento per l’Alta Formazione Musicale.

Io mi devo fermare qui, perché il tempo è limitato.

Spero però di essere riuscita a dare un’idea di come la nostra storia sia strettamente legata a quella della riforma dell’istruzione superiore in tutta Europa, e di come l’AEC abbia supportato attivamente i suoi membri in questo cammino verso l’internazionalizzazione iniziato nel 1999.

Lucia Di Cecca

Due anni di more

Il 14 gennaio 2014 cadde definitivamente in commissione cultura del Senato l’atto del governo n.42 (Schema di decreto ministeriale recante modifiche al decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 16 settembre 2005, n. 236, concernente il regolamento recante la composizione, il funzionamento e le modalità di nomina e di elezione dei componenti il Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale).

Quello schema, scritto e presentato dal governo in modo presuntuoso e dilettantesco, del tutto indifferente alle indicazioni del Consiglio di Stato, del tutto inconsapevole del peso numerico dei SAD dei Conservatori di musica, si attirò le critiche tanto delle OO.SS., Unams e Confederali, quanto della Conferenza dei Direttori o del gruppo DDM-GO; critiche cui il sottosegretario Toccafondi tentò di ribattere appunto presentando un parere positivo “con osservazioni che però fece pari e patta: fu cioè respinto.

È davvero difficile da credere che un governo sia riuscito in un pasticcio di tal fatta, ma tant’è; le conseguenze le scontiamo ancora oggi, tre anni e mezzo dopo. Uno degli argomenti di discussione allora fu la volontà, l’insistenza da parte del governo di introdurre nel costituendo organo due rappresentanti delle istituzioni private autorizzate al rilascio di titoli Afam: istituzioni che peraltro la legge 508 non prevedeva né nominava. Da allora, caduto per sempre il Cnam, e dunque senza neppure il bisogno di quei due rappresentanti all’interno dell’organo, ogni anno il Miur riapre la procedura di accreditamento per le scuole private, che, assente il Cnam, devono passare solo il vaglio anvuriano, e pare con ottimi risultati: ultima nell’ordine è stata Mussida Music Publishing di Milano. A chi toccherà ora?

Dunque assai meglio così per le scuole private, sembrerebbe volendo un po’ malignare. E invece per il resto del sistema? Quello, scusate il termine… pubblico? Che vantaggi ha avuto nel periodo gennaio 2014/luglio 2015 dall’assenza di un organo che avrebbe dovuto esprimere pareri praticamente su tutto? E quali invece i vantaggi a partire dal luglio 2015, quando un comma 27 della c.d. Buona Scuola stabilì che se ne potesse fare a meno, gettando le premesse per la Commissione Chiappetta?

Esattamente due anni fa venne avviata una raccolta di firme, che decidemmo di chiudere tre mesi dopo, raggiunta quota 2102; quelle firme furono inviate alla Ministra Giannini senza alcun risultato. E ci mancherebbe.

Quali i risultati ottenuti senza il carrozzone, grazie alla sua assenza? Quali i regolamenti mancanti che il carrozzone avrebbe magari potuto rallentare, e che senza carrozzone, grazie a una più agile/abile commissione hanno potuto invece succedersi con stupefacente rapidità? Forse quello sul reclutamento, che è lì pronto, lo abbiamo predisposto, è sul tavolo del MEF, ce l’ha il dirigente? O quello sui criteri generali per l’istituzione e l’attivazione dei corsi biennali, abbiamo praticamente concluso, ne riparliamo più avanti, il dottore è fuori stanza? O invece quello sulle procedure, i tempi e le modalità per la programmazione, il riequilibrio e lo sviluppo dell’offerta didattica nel settore? Il sottosegretario Toccafondi ci ha fatto sapere recentemente che c’è la vacatio organi: meno male, non lo sapevamo. Anche perché questo bradipismo, se c’è un organo di rappresentanza è colpa della rappresentanza (dei meccanismi democratici); ma se non c’è il Cnam, quella lentezza non è mica colpa solo del Miur. È colpa, guarda un po’, delle spinte corporative.

Unimpresa: tirano solo Afam e Vigili del Fuoco

Secondo un recente studio di Unimpresa i lavoratori pubblici sarebbero calati di 178.000 unità in 5 anni. Unici settori in totale controtendenza, ma in ambito non statale, sono quelli delle regioni a statuto speciali (+28,69%), delle autorità indipendenti (+46,01%) e degli “altri enti” (+19,14%).

In ambito statale gli unici settori col segno positivo sono quelli dei Vigili del Fuoco (+4,97%) e dell’Alta Formazione Artistica e Musicale: 9.174 lavoratori, in aumento di 166 unità (+1,84%).

Qui l’articolo del «Corriere della Sera».

Il gioco del silenzio

Più volte annunciato e dato per imminente (ricordate come l’estate scorsa seguimmo trepidanti la vicenda, da Melancholia a Pinocchio?), il famigerato regolamento sul reclutamento fa parte a tutt’oggi e dopo quasi diciott’anni, delle mondo delle fole e delle slides.

«È lì sul tavolo, è quasi pronto, no, è sul tavolo del MEF, ci stiamo lavorando, è praticamente ultimato», esso rappresenta per l’appunto un esempio più che mirabile di vaniloquio e d’inefficienza.

Potremmo, per favore, non parlarne più? Potremmo fare il gioco del silenzio? Facciamo che il primo che ne parla ne mostra la versione definitiva o va a lavare i piatti?

Mostrato per l’appunto per via slidica ai sindacati e ai Presidenti delle Conferenze (a proposito, Presidenti delle Conferenze, potreste dirci cosa rammemorate di quelle visioni?), quasi dal buco di una serratura, quello che vi proponiamo ora, noi che non abbiamo accesso a veline e pettegolezzi riservati, noi che non frequentiamo ammezzati e disimpegni romani, è forse la versione più dettagliata di quel fantomatico regolamento venturo, così come centellinato da fonti ufficiali.

 

 

Queste le indicazioni fornite dalla Ministra Fedeli nel corso dell’audizione del 26 aprile u.s. presso la VII Commissione del Senato della Repubblica.

«Nel corso dal 2016 il Ministero ha avviato la definizione dello schema di Regolamento previsto dalla Legge 508  in tema di reclutamento; esso sarà adottato con DPR, ma la proposta nel corso ultimi mesi è già stata illustrata ai presidenti delle conferenze delle istituzioni e ai sindacati. Anche a seguito di un confronto con il MEF e il Ministero per la semplificazione  e la Pubblica Amministrazione essa può essere consolidata in testo definitivo.

Linee guida:

  • continuare la gestione delle graduatorie a tempo determinato trasformandole in graduatorie a esaurimento per il reclutamento di docenti a tempo indeterminato;
  • il 50% delle assunzioni avverranno attingendo da graduatorie a esaurimento e il  il 50% da concorsi autonomi locali;
  • autonomia delle singole istituzione nelle procedure di reclutamento, con un regolamento di sede stilato nel rispetto di criteri stabiliti dal regolamento ministeriale;
  • previsione di commissioni di concorso locali miste, con componenti designati sia dalle istituzioni, sia dal Ministero.

 

L’obiettivo è di attivare canali di reclutamento che valorizzino le specificità delle singole istituzioni, dando a esse strumenti di autonomia responsabile nella programmazione del reclutamento e nella gestione delle dotazioni organiche,  a invarianza di spesa.

Punti qualificanti:

  1. introduzione di un piano di assunzioni triennale;
  2. possibilità di trasformazione di posti vacanti di personale docente in posti di personale tecnico amministrativo e viceversa;
  3. possibilità di conversione parziale di cattedre vacanti di specifici settori in settori diversi, per far fronte alle mutate esigenze della domanda di formazione e dell’ offerta formativa [?];
  4. individuazione di una nuova modalità di conteggio delle facoltà assunzionali annuali a tempo indeterminato, attualmente stabilita al 100% delle cessazioni dell’anno precedente , in base al budget di spesa derivante dai risparmi da cessazioni, cui aggiungere una quota percentuale del budget annualmente destinato ai contratti a TD (in questo caso per le supplenze annuali);
  5. utilizzo delle facoltà assunzionali inizialmente secondo due canali paralleli (50% dalle GAE per titoli e 50% dalle graduatorie nazionali e locali per titoli e esami), e a regime solo secondo graduatorie locali con concorsi per titoli e esami;
  6. la trasformazione della graduatoria 128, attualmente utilizzabile per assunzioni a tempo determinato, in GAE, risolvendo così il problema di 1200 docenti;
  7. obbligo futuro per ogni istituzione di dotarsi di un proprio regolamento per l’assunzione a tempo indeterminato, nel rispetto dell’architettura del nuovo regolamento, stabilita sulla base di criteri comuni e di sistema:
  • concorso per  titoli e esami per il reclutamento dall’ esterno;
  • concorso anche per  soli titoli per il trasferimento di personale già nei ruoli;
  • graduatorie locali o comuni a più sedi, con numero di vincitori uguale a quelo dei posti vacanti;
  • punteggio massimo di 100 punti e contestuale definizione del punteggio minimo da destinare ai titoli (50 punti), e di un punteggio minimo da destinare alla prova didattica (40 punti), con possibilità di definizione di come ripartire i 10 restanti tra titoli e prova.
  • valutazione dei titoli con possibilità di graduare diversamente entro intervalli stabiliti dal regolamento quanto attribuire alle diverse tipologie di titoli (es.: titoli di studio e culturali di alta qualificazione, attività di insegnamento precedenti, qualificate esperienze a livello nazionale e internazionale, possesso di  premi e riconoscimenti internazionali e nazionali, presenza in graduatorie nazionali e a esaurimento);
  • possibilità di graduare la prova didattica con contenuti maggiormente teorici o maggiormente pratici a seconda del settore artistico disciplinare;
  • commissioni di 3 componenti non appartenenti all’istituzione che bandisce la procedura, di cui uno designato dall’istituzione stessa, e due sorteggiati dal Ministero;

Inoltre:

  • personale ATA: l’assunzione a tempo indeterminato avverrà secondo le modalità riservate al personale della P.A., con selezione per titoli e esami, e almeno 2/3 del punteggio riservato alle prove;
  • possibilità di stabilizzare il personale ATA che ha maturato almeno 3 anni di servizio con contratti a tempo determinato».

 

 

 

I video dell’incontro di Milano

Questi gli interventi di Enza Blundo, Renato Meucci, Elena Ferrara, Cristina Frosini, Alberto Giraldi, Roberto Neulichedl, Lucia Di Cecca, Riccardo Ceni, Leonella Grasso Caprioli, Marco Zuccarini, Cinzia Piccini, Rossella Vendemia, Fabio Dell’Aversana, Francesco Bellotto, Marcoemilio Camera, Beatrice Campodonico, Emilio Piffaretti, Maria Elena Bovio e Alberto Odone nell’ambito dell’incontro Prospettive per l’Afam organizzato dalla Conferenza dei Docenti dei Conservatori di Musica presso il Conservatorio di Milano il 6 giugno scorso.

 

Udine, Cagliari, Cuneo, Como, Foggia, Novara, Napoli

Sono stati eletti i nuovi direttori per il triennio 2017/2020 nei Conservatori di Udine, Cagliari, Cuneo, Como, Foggia, Novara, Napoli.

 

Carmine Santaniello, dopo due mandati a Avellino, è diventato direttore a Napoli con 64 voti contro i 36 di Angela Morrone.

Alberto Borello si è imposto al primo turno con 47 voti su 60 aventi diritto a Cuneo.

Virginio Zoccatelli si è imposto con 41 voti a 33 su Franco Calabretto a Udine.

Giorgio Sanna è stato eletto al primo turno a Cagliari con 79 voti su 133.

Francesco Montaruli è stato eletto direttore a Foggia; candidato unico, ha ottenuto 124 voti su 133 votanti.

Carlo Balzaretti inizierà il secondo mandato a Como, ottenuto con 56 voti contro gli 8 di Claudia Bracco.

Roberto Politi è il nuovo direttore del Conservatorio di Novara (32 voti contro i 30 di Ettore Borri).

Virginio Zoccatelli direttore del Conservatorio di Udine per il triennio 2017-2020

Il collegio docenti riunitosi lunedì 5 giugno 2017 ha eletto Virginio Zoccatelli direttore del Conservatorio di Musica “J. Tomadini” di Udine per il triennio 2017-2020; succede a Paolo Pellarin che ha retto la carica per due mandati consecutivi. Veronese, diplomato presso i conservatori italiani in pianoforte, strumentazione per banda e composizione, laureato in lettere e filosofia al DAMS di Bologna, compositore tra i più interessanti e significativi della sua generazione con un catalogo di oltre quattrocento titoli tra lavori orchestrali, per orchestra di fiati, per coro, cameristici, teatrali e composizioni per balletto, colonne sonore, documentari e sonorizzazioni audio-video, Virginio Zoccatelli è titolare della cattedra di Elementi di composizione per la didattica.