Legge di stabilità e Afam

Nella bozza della legge di Bilancio del 19/10/2017 è inserito un articolo che prevede da un lato la statizzazione degli Istituti Superiori di Studi Musicali non statali e il superamento del precariato storico attraverso la trasformazione della graduatoria 128 in graduatoria utile per i contratti a tempo indeterminato, dall’altro – intervento ben più radicale – la riorganizzazione dell’AFAM in non più di 20 Politecnici delle arti, escluse però l’Accademia di arte drammatica e l’Accademia nazionale di danza (non se ne conoscono le ragioni).

Il comma 2 sostituisce l’articolo 2, comma 8, lettera i) della Legge 508/1999, stabilendo gli organi di governo dei Politecnici, i cui direttori resteranno in carica 6 anni.

Ma confrontiamo il comma in questione della 508 con la nuova versione:

nella 508/1999 si legge

«facoltà di costituire, sulla base della contiguità territoriale, nonché della complementarietà e integrazione dell’offerta formativa, Politecnici delle arti, nei quali possono confluire le istituzioni di cui all’articolo 1 nonché strutture delle università. Ai Politecnici delle arti si applicano le disposizioni del presente articolo»;

nella bozza della legge di bilancio

«costituzione, sulla base della contiguità territoriale, della complementarietà e dell’integrazione e valorizzazione dell’offerta formativa, di un numero massimo di 20 Politecnici delle arti salvaguardando l’identità delle Istituzioni statali che vi confluiscono e prevendo quali organi del Politecnico il direttore, il consiglio di amministrazione, il consiglio accademico, il direttore amministrativo, il collegio dei revisori dei conti; il nucleo di valutazione; il mandato del direttore è pari ad un massimo di 6 anni non rinnovabili e quello del direttore amministrativo di 3 anni rinnovabili”.

Dunque ciò che era una libera scelta delle istituzioni diviene ora un obbligo e anche il numero dei politecnici è fissato in modo rigido; inoltre scompare il riferimento all’università. Stupisce che non si faccia parola della relazione tra gli organi di governo esistenti (non dimentichiamo che le istituzioni AFAM godono di «autonomia statutaria, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile») e i nuovi. Non è chiarito come venga scelto il direttore dei Politecnici (se sia nominato o eletto).

In realtà, proprio per la comparsa di nuovi organi superiori a quelli delle singole istituzioni, la nuova norma modificherebbe anche un altro articolo della legge 508/1999, l’art. 2 comma 4 relativo all’autonomia delle istituzioni AFAM:

legge 508/1999, art. 2 comma 4

«Le istituzioni di cui all’articolo 1 sono sedi primarie di alta formazione, di specializzazione e di ricerca nel settore artistico e musicale e svolgono correlate attività di produzione. Sono dotate di personalità giuridica e godono di autonomia statutaria, didattica, scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile ai sensi del presente articolo, anche in deroga alle norme dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, ma
comunque nel rispetto dei relativi princìpi»;

ma soprattutto modificherebbe il regolamento attuativo 132/2003 relativo alla governance delle istituzioni artistiche e musicali; tuttavia né l’uno né l’altro sono citati nella bozza della legge di bilancio.

Le criticità sono innegabilmente molte; una cosa è inserire in una legge di bilancio la trasformazione di una graduatoria nazionale in graduatoria utile per i contratti a tempo indeterminato; una cosa destinare un fondo per l’attuazione di una norma già contenuta in una legge organica dello stato (quella che prevedeva la statizzazione degli ex Istituti musicali pareggiati e delle accademie non statali); ben altro è riorganizzare in modo radicale l’AFAM con una norma incompleta, che lascia molti punti oscuri e non prevede alcun finanziamento per la sua attuazione (in assenza di un investimento coerente meglio sarebbe chiamare i Politecnici semplici Accorpamenti).

Mentre la risoluzione del precariato è quanto mai urgente e ci si augura che non venga ulteriormente rinviata, per un riassetto dell’AFAM sarebbe auspicabile una legge organica e specifica, non certo un articolo della legge finanziaria.

Si ha l’impressione che, in vista della fine della legislatura, si voglia comunque far passare stralci (in modo disomogeneo e affrettato) del ddl 322 e del dpr sul reclutamento.

Infine, come si può pensare di avviare la statizzazione degli ex IMP con una somma iniziale di soli 5 milioni di euro, spostando agli anni successivi il grosso della spesa?

Qui di seguito le parti della bozza del 19/10/2017 riguardanti l’AFAM:

Art.
Statizzazione delle accademie di belle arti e degli istituti musicali pareggiati e istituzione dei Politecnici delle arti
1. Al fine di consentire, al termine del triennio 2018 – 2020, la realizzazione integrale del processo di statizzazione e razionalizzazione di cui all’articolo 22-bis, comma 1 del decreto legge 24 aprile 2017, n.50, convertito nella legge 21 giugno 2017, n. 96, il fondo di cui al comma 3 del medesimo articolo 22-bis è integrato con uno stanziamento di 5 milioni di euro per l’anno 2018, di 15 milioni di euro per l’anno 2019, di 30 milioni per l’anno 2020 e di 28 milioni di euro a decorrere dall’anno 2021. Nei decreti di cui al comma 2 del medesimo articolo e con riferimento al triennio 2018 – 2020, sono altresì definiti i requisiti, le modalità e le fasi attraverso cui si realizza la statizzazione. Entro l’anno 2021 si provvede alla riorganizzazione e razionalizzazione della rete territoriale del sistema statale dell’Alta formazione artistica, musicale e coreutica, mediante l’istituzione di non più di venti Politecnici delle arti, di seguito denominati “Politecnici”, di ambito regionale o interregionale, in cui le Istituzioni AFAM statali confluiscono. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano all’Accademia nazionale di arte drammatica e all’Accademia nazionale di danza.
2. Ai fini di cui al comma 1, terzo periodo, l’articolo 2, comma 8, lettera i) della Legge 21 dicembre 1999, n. 508 è sostituito dal seguente: “costituzione, sulla base della contiguità territoriale, della complementarietà e dell’integrazione e valorizzazione dell’offerta formativa, di un numero massimo di 20 Politecnici delle arti salvaguardando l’identità delle Istituzioni statali che vi confluiscono e prevendo quali organi del Politecnico il direttore, il consiglio di amministrazione, il consiglio accademico, il direttore amministrativo, il collegio dei revisori dei conti; il nucleo di valutazione; il mandato del direttore è pari ad un massimo di 6 anni non rinnovabili e quello del direttore amministrativo di 3 anni rinnovabili”.
3. Agli oneri di cui al comma 1, pari a 5 milioni di euro per l’anno 2018, a 15 milioni di euro per l’anno 2019, a 30 milioni di euro annui per l’anno 2020, a 28 milioni di euro a decorrere dal 2021 si provvede XXXXX.
4. A decorrere dall’esercizio finanziario 2018 le risorse finanziarie di parte corrente destinate dallo Stato alle Istituzioni statali AFAM e, dal momento della loro costituzione, ai Politecnici, sono iscritte in un’unica autorizzazione di spesa destinata al finanziamento ordinario degli stessi, relativa alla quota a carico del bilancio dello Stato delle spese per il funzionamento e le attività istituzionali, con esclusione degli oneri stipendiali e contributivi e del salario accessorio per il personale docente e non docente.
5. A decorrere dall’anno accademico 2018-2019, le graduatorie nazionali di cui all’articolo 19, comma 2, del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, sono trasformate in graduatorie nazionali a esaurimento, utili per l’attribuzione degli incarichi di insegnamento con contratto a tempo indeterminato e determinato.
6. A decorrere dall’anno accademico 2018-2019, il turn over del personale delle Istituzioni AFAM statali è pari al 100 per cento dei risparmi derivanti dalle cessazioni dal servizio dell’anno accademico di riferimento cui si aggiunge il 50 per cento della spesa sostenuta nell’anno accademico precedente per la
copertura dei posti vacanti della dotazione organica con contratti a tempo determinato, prevedendo la contestuale e definitiva riduzione del corrispondente onere per contratti a tempo determinato.

Incontro del 6 giugno a Milano. Prove tecniche di dialogo

Il 6 giugno 2017 si è svolta a Milano presso il Conservatorio di Musica G. Verdi la prima giornata nazionale della Conferenza dei Docenti dei Conservatori di Musica Italiani.

Le tematiche trattate sono state quelle relative alla riforma del comparto AFAM, che, pur avendo ormai compiuto 18 anni (legge 508 del 1999), non è ancora stata completata (mancano in particolare i regolamenti attuativi relativi al reclutamento, la stabilizzazione dei bienni, l’attuazione dei dottorati di ricerca, la statizzazione degli Istituti Superiori di Studi Musicali comunali e provinciali).

La Senatrice Rosetta Enza Blundo ha affermato la necessità di un impegno forte da parte del MIUR verso le istituzioni AFAM e ha sottolineato la necessità e l’urgenza della risoluzione del precariato (con particolare riferimento alla graduatoria nazionale 128 attualmente valida solo per i contratti a tempo determinato); il Presidente della Conferenza dei Direttori dei Conservatori Renato Meucci dal canto suo ha lamentato l’assenza di un dialogo costruttivo con il MIUR, e la mancanza di attenzione di quest’ultimo alle necessità del comparto.

Al centro del dibattito è stato inoltre il problema dei corsi preaccademici, per i quali alcuni dei relatori (Cristina Frosini, direttore del Conservatorio di Milano, Alberto Giraldi, direttore del Conservatorio di Frosinone) hanno rivendicato il ruolo fondamentale dei Conservatori messo in crisi dal recente regolamento attuativo della legge sulla buona scuola, il cui art. 15 (armonizzazione dei percorsi formativi della filiera artistico-musicale) limita il ruolo e la presenza di queste tipologie di corsi all’interno degli Istituti Superiori di Studi Musicali, lasciandoli in buona parte alle Scuole Medie a Indirizzo Musicale e ai Licei Musicali. I relatori e alcuni interventi dei presenti hanno sottolineato le problematiche ancora riscontrabili in questi ultimi e la loro disomogenea distribuzione sul territorio nazionale. La senatrice Ferrara ha invece ribadito la necessità di un ridimensionamento della presenza dei corsi preaccademici nelle istituzioni AFAM e sottolineato che prima dei 16 anni non si può parlare di corsi professionalizzanti. Roberto Neulichedl ha affermato che va evitata una visione parcellaria, in cui le competenze interpretative sono disgiunte dalle competenze musicali e culturali generali.

Altro tema sviluppato è stato quello dell’internazionalizzazione. Gli interventi di Lucia Di Cecca e Riccardo Ceni, direttore del Conservatorio di Parma, hanno sottolineato il ruolo che i processi di internazionalizzazione rivestono ormai all’interno dell’AFAM, fornendo nuove possibilità per la ricerca, la mobilità e le convenzioni tra istituzioni di paesi membri dell’UE. L’ampliamento dell’offerta dell’ERASMUS può in parte sopperire agli scarsi finanziamenti del MIUR nei confronti dell’AFAM.

La Professoressa Maria Luisa Meneghetti, membro del direttivo ANVUR, ha invece affermato la necessità di una corretta valutazione delle istituzioni AFAM come mezzo per una loro completa integrazione nel sistema dell’alta formazione. Leonella Grasso Caprioli ha invece comunicato che nel 2020 l’Italia sarà la sede dell’Interministeriale del processo di Bologna, dove si porrà particolare attenzione ai temi della ricerca, della terza missione e dell’internazionalizzazione; sarà un’occasione importante anche per le istituzioni della formazione superiore artistico-musicale.

Nel pomeriggio altro tema scottante è stato la sorte degli Istituti Superiori di Studi Musicali non statali che versano in condizioni economiche difficili e aspettano da ormai 18 anni il processo di statizzazione previsto dalla legge 508 del 1999. Cinzia Piccini, direttore dell’ISSM di Pavia, ha evidenziato come l’emendamento su tali istituti incluso nella ‘manovrina’ (e ultimamente approvato da camera e senato) presenti degli elementi di ambiguità come l’affermazione che solo ‘una parte’ degli istituti sarà statizzata (senza indicare di quale parte si tratti). Tali dubbi sono stati condivisi dal deputato Raffaello Vignali in collegamento da Roma. Altri due temi toccati sono stati le modalità del reclutamento dei docenti (Marco Zuccarini, direttore del Conservatorio di Torino) e le docenze di ‘seconda fascia’ (Rossella Vendemia).

L’ultima sessione ha visto interventi più specifici sull’interazione tra fondazioni lirico-sinfoniche e istituzioni AFAM (Francesco Bellotto), sulla didattica (Beatrice Campodonico, Emilio Piffaretti, Maria Elena Bovio, Alberto Odone) e sul ruolo delle biblioteche musicali (Marcoemilio Camera).

Preme sottolineare che si è trattato del primo incontro nazionale sull’AFAM ad aver visto come protagonisti i docenti di queste istituzioni, e la prima occasione pubblica in cui si è assunto quale punto di vista privilegiato quello di coloro che quotidianamente sono realmente impegnati nella formazione superiore artistico-musicale del nostro paese.

La Conferenza dei Docenti dei Conservatori di Musica Italiani ringrazia nuovamente il Conservatorio di Milano e il suo direttore Cristina Frosini per l’ospitalità, i colleghi Daniela Macchione e Fabrizio Dorsi per il ruolo di moderatori e tutti i colleghi presenti all’incontro.

Auspichiamo, e ci impegneremo a stimolare, nuove iniziative in questa direzione affinché possa crearsi una vera comunità della docenza AFAM aperta al dialogo con studenti, politici, società civile e tutte le istituzioni della formazione, sia essa di base o superiore.

 

Conservatorio – Università: sei-zero, sei-zero

Parliamo della presenza di studenti provenienti da Paesi europei ed extraeuropei nei conservatori e nelle università. I dati relativi ai conservatori e ISSM per l’anno accademico 2015 –2016, disponibili sul sito del MIUR, sono ricostruiti in dettaglio nei files allegati.

Il computo degli/delle studenti stranieri/e nelle università italiane si attesta intorno al 4%. Dato che, sebbene in crescita, risulta nettamente inferiore al 16% degli USA e al 6% di Francia e Germania. Fra i primi dieci atenei che ospitano il più alto numero di presenze straniere ci sono Bologna, Roma, Torino, Milano e Padova.

I risultati raggiunti dall’Alta Formazione Musicale sono di molto superiori: considerando le/gli appartenenti alla fascia accademica degli studi, la media nazionale di studenti stranieri/e nei nostri conservatori è del 13%. Un dato molto positivo. Le istituzioni dell’alta formazione musicale hanno dunque un buon successo nell’attrarre studenti provenienti dall’estero.

Si tratta in maggioranza di donne, che sono più del 58% del totale, elemento più interessante se si considera che la popolazione italiana totale di studenti è per lo più maschile.

Guardando alle singole istituzioni emergono differenze importanti: Torino è sopra quota 15, come Udine, Rovigo e Pesaro. Fra i conservatori che raggiungono o superano di poco la quota del 20% troviamo Roma, che è però superata dalla piccola Como, e poi Bologna, Cesena e Brescia. Firenze raggiunge il 23% e Perugia è al 26%. A Venezia e a Trieste gli allievi e le allieve di origine non italiana sono al di sopra del 25% – risultato geograficamente prevedibile – tuttavia Bolzano è nettamente al di sotto di queste percentuali. Il conservatorio di Fermo raggiunge il 28%; superano un notevole 30% i conservatori di La Spezia, Piacenza e Parma. Milano spicca con il suo 35%. Segnaliamo che nessun conservatorio del sud supera la media nazionale. Campobasso non raggiunge l’1% e Matera lo supera di poco. Con numeri intorno al 5 o 6 percento – ricordiamo però che si tratta pur sempre di risultati superiori alla media delle Università italiane – troviamo Benevento e Messina. Diversa appare la situazione degli Istituti Superiori di Studi Musicali (gli ex Istituti Musicali Pareggiati), per i quali occorre tener conto del diverso regime di finanziamento, che hanno percentuali di presenze generalmente modeste, pur con alcuni buoni risultati, fra cui brillano Bergamo, Cremona e Pavia, che supera un lusinghiero 30%.

Siamo sulla giusta strada: le città ricche di tradizione musicale esercitano una forte attrattiva nei confronti degli altri Paesi e i percorsi formativi del nostro settore danno esiti che lasciano ben sperare. È sul territorio nell’integrazione fra attività di produzione culturale e formazione che s’intravede il segreto di un successo che deve stimolarci a valorizzare i traguardi raggiunti e a far leva sui decisori politici perché investano con qualità e lungimiranza in un settore ricco di promesse per l’avvenire. I brillanti risultati ottenuti dalle nostre istituzioni, al confronto con altri settori disciplinari, spingono a promuovere la formazione musicale come uno dei cardini per l’internazionalizzazione degli Studi superiori.

dati conservatori

dati ISSM

 

La condizione femminilenella musica colta contemporanea

Confesso che scrivere questo articolo è difficile. Tutte le volte che parlo dell’argomento sintetizzato dal titolo, i colleghi e le colleghe di Conservatorio hanno reazioni imbarazzanti, che vanno dall’accesso di furore di alcuni – di solito uomini – all’ironia di altri che tagliano corto, squittendo: «Tutte idiozie!»; dalla sospettosa incredulità alla bonarietà indulgente delle donne. Molte delle colleghe, e alcuni colleghi, aggiungono solitamente frasi di contenuto riferibile a quello che potremmo chiamare “complesso del Panda”. Che consiste nel vergognarsi o biasimare d’essere considerate specie protetta e nell’affermare orgogliosamente che tutti i meriti e le soddisfazioni professionali che conseguiamo giammai possano dipendere da caratteristiche personali insulse (?) come l’esser donne.

Diononvoglia…

(Breve digressione  – tutto pur di rimandare – se si considera che una certa formazione, i libri per studiare e un buono strumento su cui esercitarsi dipendono per esempio: a) dall’essere nato/a in un Paese “avanzato” b) dall’essere stati accolti/e da un ambiente familiare minimamente propenso alla cultura; c) dall’aver incontrato, magari per caso, persone disposte a sostenere i nostri sforzi, ecc., l’idea dei nostri meriti personali si fa piuttosto fuzzy.)

Tutti e tutte desideriamo essere rispettati/e, forse persino benvoluti/e, e possibilmente non incorrere nell’acredine e nella stizza di coloro che lavorano con noi. Dunque, pubblicare su un sito che raccoglie molte migliaia di docenti di musica questo intervento non solo è un grande sforzo, ma è in qualche modo il mio Rubicone.

Alea iact…

Nella Missa in cena domini di quest’anno – atto d’alto valore umano – papa Francesco ha lavato i piedi a una piccola rappresentanza di migranti, includendo quattro donne su dodici partecipanti. Il loro numero tradizionalmente si riferisce a quello degli apostoli di Cristo che, come si sa, erano tutti uomini, proprio come sacerdoti e vescovi della Chiesa cattolica romana. In questo contesto la presenza femminile (tre donne migranti e un’operatrice del centro di accoglienza) ha un valore educativo e simbolico. Indica una sensibilità. Ora, il valore emblematico della rappresentazione della donna nelle manifestazioni di alta cultura è ancora più grande: la cultura, nelle sue forme più alte, costruisce la società, la ispira, le indica il progresso o, almeno, scelte di consapevolezza. Un’analisi della presenza femminile nel contesto delle manifestazioni musicali riveste quindi un significato particolare e richiede un’attenta riflessione. Ma implica anche considerazioni concrete, di giustizia e di equità nella gestione dei finanziamenti alla cultura in ottica di genere. In soldoni… ecco appunto, si tratta di soldi, anche. Di remunerazione materiale, che sostiene la nostra esistenza, e di compensi immateriali, che ci nutrono del necessario riconoscimento professionale.

Oggi accade di rado che un organo di amministrazione pubblica sia composto da soli uomini e nelle leggi elettorali si tiene conto del sesso della rappresentanza politica. Parlando di lavoro, si considerano preoccupanti le discriminazioni dovute al gender pay gap, alla marginalizzazione e ai meccanismi di segregazione (verticale e orizzontale) nelle professioni femminili, agli squilibri nel Work – life balance. Ma quando si tratta del denaro pubblico destinato alla promozione della cultura, che dovrebbe dare riconoscimento alle professionalità e ai talenti artistici e musicali di uomini e donne in modo paritario, il discorso cambia. Si dimentica che il lavoro artistico è pur sempre lavoro, e che necessita di misure di tutela e riequilibrio.

Quante sono le donne che dirigono Enti lirici e Fondazioni? Quante siedono ai tavoli in cui si prendono decisioni sulle politiche culturali? Quante artiste sono presenti nelle stagioni di concerto del Paese? Quante compositrici sono eseguite nelle rassegne di musica contemporanea? Quante insegnanti raggiungono i vertici della propria professione e ricevono i relativi riconoscimenti? Quante masterclass sono tenute da artiste di chiara fama? Quante sono le orchestrali e le direttore d’orchestra? (Chiedo scusa ai molti puristi della grammatica italiana che allignano fra le/gli insegnanti, questa è proprio la parola che scelgo e prediligo). Quante musiciste sono chiamate a far parte di giurie di concorso? E via di seguito… i lettori e le lettrici sono in grado di appurarlo personalmente: è semplice, occorre solo pensarci, almeno qualche volta.

Domande impertinenti: i ruoli spettano a chi li merita. D’accordo, con qualche concessione al compromesso, al venire a patti con la sfera della politique politicienne…  come faremmo, se no? Torniamo all’investitura di sua Maestà? Senz’altro, con tutti i suoi difetti,  e la pur deprecabile corruzione dell’animo umano, il sistema è complessivamente meritocratico. E, come detto, nessuna donna, solista o compositrice, accetterebbe di essere inserita in una stagione di concerti solo perché donna. Lo aborrirebbe, e avrebbe di certo ragione.

Concesso.

Ma di strumentiste di talento e di compositrici raffinate – mi spiace per chi, in fondo in fondo, non ci crede – il mondo è veramente pieno! Eppure è facile verificare che le scelte culturali, organizzative e gestionali, che ricadono nella sfera decisionale della politica, non tengano conto in alcun modo del criterio di un’equa rappresentanza delle artiste nel mondo musicale.

Se si escludono dal computo le prime parti vocali assegnate a voci femminili o maschili per indicazione del compositore o della compositrice, che non sono soggette a scelta di genere, ci si accorge facilmente che se sei donna e canti hai maggiori probabilità di comparire con un ruolo di primo piano, cioè con il tuo nome sulle locandine, in opere e concerti. In questo senso nella storia degli ultimi tre secoli è cambiato poco. In Italia e all’estero, attrice, cantante o ballerina, sono i ruoli più riconosciuti alle donne nelle performing arts. Proprio come in televisione! Per tutte le altre la condizione di sottorappresentazione è la norma: rispetto al novero totale dei cartelloni, la presenza femminile è molto al di sotto sia della parità sia della ragionevole proporzione. Problema tanto diffuso, da essere, paradossalmente, invisibile.

Fin qui le considerazioni riguardanti la sfera professionale di coloro che hanno scelto la musica come progetto esistenziale e attività lavorativa. Ma quale impatto ha la presente situazione sui nostri allievi e allieve? Se esaminiamo la distribuzione per genere degli iscritti e delle iscritte ai Diplomi di primo livello dei nostri Conservatori, in base ai dati forniti dal MIUR per l’anno accademico 2015 – 2016, saltano agli occhi disparità macroscopiche. Non stupisce che gli studenti di contrabbasso siano 77 e le studenti 10, mentre per l’arpa il rapporto si capovolga con 72 allieve su un totale di 77. Ma tanta rigidità dovrebbe davvero lasciarci indifferenti? Se per il pianoforte le iscritte sono ben più della metà, nella musica elettronica le studenti sono soltanto 54 su 777 (circa il 7%). Alcune materie, poi, sono cruciali per la comprensione di questo fenomeno, indubbiamente di origine storica e sociale molto ampia, che pure attraversa le aule dei nostri Conservatori, senza che apparentemente nessuno/a faccia un plissé: la Direzione d’orchestra vede, per l’anno in corso, un totale di 132 studenti, sul quale le donne sono soltanto 19. Per la Composizione su un totale di 270 solo 38 sono donne. In entrambi i casi soltanto il 14%. Se si considera che le ingegnere italiane, ancora troppo poche, sono una ogni quattro (fonte Il sole 24 ore, Micaela Cappellini, 8 marzo 2016), si comprende la dimensione del problema, e la sua rilevanza nel futuro della musica.

Facciamo spallucce?

Lo stereotipo che vede la Direzione, la Composizione e le prassi tecnologiche più avanzate appannaggio privilegiato del sesso maschile dev’essere finalmente valicato. Determinante è il meccanismo del role model, ampiamente studiato in sociologia, cioè la rappresentazione delle donne nelle manifestazioni musicali in ruoli professionali più ampiamente diversificati. Si torna così al rilievo strategico di una presenza femminile qualificata nelle stagioni, che dovrebbe essere finalmente messa a tema a beneficio dell’avanzamento della società intera.

Cosa propongo?

Le quote di genere (per favore, non quote rosa), sì: negli Enti lirici, nei Teatri, nelle Fondazioni e nelle istituzioni di Alta Formazione Artistica e Musicale su modello dell’intervento, temporaneo, ma dotato d’importante spinta propulsiva della Legge Golfo-Mosca n. 120/2011. Le quote sono uno strumento importante, necessario negli enti culturali ancor più che nelle società per azioni, che producono e danno lavoro, ma non informano i valori civili di una comunità nazionale.

Fra le cosiddette azioni positive – intraprese da tutte le parti in causa, a iniziare dallo Stato, con Regioni ed enti locali, fino alle piccole associazioni culturali – la presentazione di programmi diversificati, che promuovano plurimi, e meno stereotipati, ruoli femminili e favoriscano una maggiore presenza di artiste, compositrici e direttore d’orchestra in tutte le stagioni di concerto e nei teatri. Inoltre l’inserimento nei programmi di studio e d’esame dei Conservatori della musica delle compositrici del passato e del presente, che incentivi anche alla (ri)scoperta delle tante autrici del repertorio storico e contemporaneo da studiare, eseguire e valorizzare.

È anzitutto questione di modelli che rinnovino la società e riequilibrino le ancor evidenti disparità fra uomini e donne sul piano culturale, ma ciò potrà avere effetti graduali e duraturi anche su una più equa distribuzione dei finanziamenti alla cultura in ottica di genere. Una diversa sensibilità su questi temi è innovazione e proiezione nel futuro.

 

Loredana Metta

A cosa serve l’AFAM? I primi dati Almalaurea sulla condizione lavorativa dei diplomati

La domanda è provocatoria, ma non troppo. Fino ad oggi, salvo la ricerca svolta nel 2015 nell’ambito del progetto europeo Working with Music su un campione molto ristretto, non esistono dati ufficiali del Miur, né delle singole istituzioni, sugli esiti occupazionali dei diplomati dei Conservatori. E visto che i Conservatori vogliono formare professionisti, è come dire che a 17 anni dalla riforma il sistema dell’alta formazione musicale non conosce i risultati della propria attività, e quindi le ragioni della propria esistenza.

Ora invece cominciano ad arrivare da Almalaurea i primi dati sulla condizione lavorativa dei diplomati a uno/due anni dal conseguimento del diploma. I dati sono stati presentati al seminario “Esperienze lavorative dei diplomati AFAM e ruolo della mobilità internazionale” organizzato presso il Miur il 12 e 13 maggio 2016 da Almalaurea, CHEER (ex Processo di Bologna), Erasmus Plus. Il seminario era riservato ai direttori, ai referenti Erasmus e ai referenti CHEER delle istituzioni, ma i dati presentati sono pubblicati nel sito del Processo di Bologna (qui) e sono quindi di pubblico dominio.

L’arrivo di questi dati è importante, e abbiamo detto all’inizio perchè. Nel tentare di commentarli – e di aiutare chi andrà a guardarseli – occorre premettere alcune considerazioni. La prima è che la rilevazione si riferisce a 1840 diplomati di 16 istituzioni Afam aderenti al consorzio Almalaurea, senza distinzione fra Conservatori e Accademie di Belle Arti. E’ vero che i Conservatori sono la maggioranza delle istituzioni Afam aderenti al consorzio, ma non è tuttavia possibile scorporare i dati ad essi relativi. Per fare un esempio, nel classificare le professioni svolte dagli intervistati una delle categorie è “Specialisti in discipline artistico-espressive”, e viene specificato che essa comprende “compositori, musicisti, cantanti”, ma anche “pittori, scultori, disegnatori, restauratori e, in misura minore, registi, direttori artistici, attori, sceneggiatori, scenografi” e “artisti delle forme di cultura popolare, di varietà e acrobati”.

A questa prima osservazione se ne deve aggiungere un’altra, che riguarda i criteri secondo i quali sono stati raccolti i dati, e presumibilmente impostati i quesiti dai quali i dati discendono. Gli intervistati sono collocati in tre macro-gruppi: diplomati di primo livello, diplomati di secondo livello, diplomati secondo il “vecchio” ordinamento. Tutti i dati raccolti sono riferiti esclusivamente a questi tre macro-gruppi, e non sono riconducibili ai singoli corsi di diploma.

Ora, il fine ultimo di una rilevazione sui destini professionali dei diplomati non può essere che quello di dare all’istituzione formativa indicazioni su come modificarsi, come adeguarsi ai tempi e alle necessità del mondo esterno. Però sappiamo che l’istituzione “ragiona” secondo la propria logica, cioè secondo il proprio modello didattico/organizzativo. Per capirsi, nel caso dei Conservatori, secondo i propri corsi di diploma: pianoforte, violino, clarinetto, canto, composizione e così via.

Ebbene, una rilevazione sugli esiti occupazionali dei diplomati, cioè sul successo di una istituzione formativa professionalizzante (quale il Conservatorio vuole essere), riuscirà a “parlare” a coloro che vi operano solo se parlerà nella loro logica, cioè in termini di pianoforte, violino, clarinetto, canto, composizione e così via. In altre parole solo la presenza di dati sul successo lavorativo corso per corso potrà generare nelle istituzioni una pressione a modificare i corsi stessi: quel che si insegna, e come. Cioè a intraprendere un cammino di riforma sostanziale, che investa la carne viva della didattica e non solo l’architettura istituzionale dei curricoli – come finora è prevalentemente avvenuto.

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 Tutto ciò premesso, guardiamo più da vicino le tabelle e estrapoliamo alcuni risultati che ci sembrano interessanti, raccomandando tuttavia al lettore un esame dettagliato dei dati (il link è qui sopra al 2° capoverso).

L’indagine riguarda i diplomati nel 2013 e nel 2014, interrogati rispettivamente a 2 anni e a 1 anno dal conseguimento del titolo. Di questi il 53% si dichiara occupato, ma la percentuale sale al 71,6 per il II livello e scende al 41,8 per i diplomati di vecchio ordinamento. Oltre la metà degli occupati dichiara di lavorare part-time, con una punta nei diplomati di vecchio ordinamento. Sono tutti valori che per poter essere stimati andrebbero confrontati con i dati corrispondenti del sistema universitario.

Degli occupati, che come abbiamo visto sono un po’ più della metà, si dichiara “stabile” il 40,8%: dunque circa il 22% degli intervistati. E per stabile s’intende il rapporto a tempo indeterminato (poco più della metà) e il lavoro autonomo “effettivo” (poco meno della metà: non pochi dunque, ma cosa s’intende per effettivo?). Il 34,5% degli occupati dichiara “contratti non standard”: non so bene cosa significhi ma certo non sono pochi.

Quanto ai settori di occupazione, l’indagine distingue fra “specialisti dell’educazione e della formazione” (che comprendono gli insegnanti di discipline artistiche e letterarie) e “professori di scuola secondaria e post secondaria”: presumibilmente, di altre discipline. I due settori sommati danno lavoro al 43% degli occupati, mentre gli “specialisti in discipline artistico-espressive” (che dovrebbero comprendere le attività performative) sono circa il 20%. Questi dati essendo alternativi fra loro non consentono di valutare quanti hanno sia attività didattiche sia performative (e sono certamente molti) e quindi vanno presi con una certa cautela.

Una zona certamente cruciale della rilevazione è quella che riguarda la coerenza fra studi compiuti e lavoro svolto. Nella sezione “utilizzo e richiesta del diploma accademico nell’attuale lavoro” si legge che ben il 20,3% degli occupati non utilizza “per niente” le competenze acquisite con il diploma, e la percentuale sale al 25% per i diplomati di vecchio ordinamento. Questi dati fanno il paio con quelli della “richiesta del diploma accademico per l’attività lavorativa”: per il 25% degli occupati (un po’ meno fra i diplomati di secondo livello) il diploma non è “né richiesto né utile”. Dunque circa un quarto di coloro che lavorano a 1 o 2 anni dal conseguimento del titolo fanno un lavoro che non è per nulla attinente con gli studi che hanno fatto. Sono molti? Pochi? Difficile dirlo. Certamente c’è una quota non trascurabile di diplomati per i quali il Conservatorio non è stato “professionalizzante”.

Un dato interessante e forse curioso riguarda la formazione ulteriore dopo il conseguimento del titolo cui l’intervista si riferisce. Alla domanda se seguano un altro corso di diploma (di I o II livello) ha risposto sì il solo 7% dei diplomati di II livello, e questo si capisce. Ha risposto sì anche il 21% dei diplomati di vecchio ordinamento: dunque un quinto di loro continua gli studi nonostante l’equipollenza del titolo già conseguito a quello di II livello. Ma il dato forse più sorprendente è che soltanto il 33% dei diplomati di I livello dichiara di essere iscritto a un altro corso di diploma accademico.

Qualche considerazione interessante riguarda le “caratteristiche dell’azienda” dove lavorano. Come abbiamo visto prima, il 43% dichiara di lavorare come docente. E il 48% dichiara di lavorare nel settore “istruzione e ricerca”. Ma il 58% degli occupati (con punte di 75 per i diplomati di I livello e di 62 per quelli di vecchio ordinamento) dichiara di lavorare nel privato. Dunque, in sostanza, molti lavorano nelle scuole private.

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Un discorso a parte riguarda le esperienze all’estero. Il convegno in cui la rilevazione è stata presentata aveva come tema “verificare l’ipotesi che le esperienze internazionali contribuiscano a sviluppare specifiche competenze personali e professionali utili ad aprire nuovi sbocchi lavorativi per i diplomati”. Ebbene i risultati appaiono per lo meno problematici rispetto a questa ipotesi. Ma vediamo qualche dettaglio.

Ha effettuato esperienze di studio all’estero l’11,5% degli intervistati. Il voto medio di diploma era 108,2 contro il 104,9 di coloro che all’estero non sono andati. Dunque all’estero ci sono andati i più bravi, o andando all’estero si diventa più bravi. E ci si diploma un po’ prima: l’età media del diploma è 26 mentre per gli altri è 28 (come si vede, l’età media è comunque decisamente alta, e sale a 31 anni per il II livello). Il tasso di “soddisfazione per l’esperienza di studio all’estero” è “decisamente sì” nel 90,1% dei casi.

Invece un tirocinio o uno stage (quindi un’esperienza professionale) all’estero è esperienza di circa il 3% degli intervistati. Il tasso di “soddisfazione per l’esperienza di tirocinio o stage svolta” è del 100% per coloro che avevano già avuto un’esperienza di studio all’estero, e del 86,4% per quelli che non l’avevano avuta.

E fin qui tutto bene.

Ma. La condizione occupazionale di coloro che hanno avuto esperienze di studio all’estero sembra lievemente peggiore di quella di coloro che non le hanno avute (50,9% contro 53,6%). Anche il tipo di lavoro sembra giocare a sfavore delle esperienze all’estero: sono considerati “stabili” il 42,2% degli occupati che non sono stati all’estero, il 29,6% di quelli che ci sono stati. Dunque meglio stare a casa e cercarsi subito il posto? Infine: il part-time è più alto fra gli “esteri” (68,5% contro 53,3%), e il guadagno medio mensile netto è più alto per i “non-esteri”: €949 contro €782.

Non saprei come interpretare questi dati, che in parte sembrano andare contro la percezione comune. Nel report ufficiale di Almalaurea-Cheer si leggono tuttavia valutazioni positive: rimando il lettore al testo linkato.

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In conclusione: nel deserto ministeriale, è molto importante che Almalaurea abbia cominciato a fare questo tipo di rilevazioni. Però i dati delle istituzioni musicali devono poter essere disaggregati da quelli delle Accademie. Inoltre è da sperare che i questionari e le interviste siano tarati in modo da dare risposte pertinenti e dettagliate riguardo alla specifica organizzazione delle istituzioni Afam, e dei Conservatori (e assimilati) in particolare. Solo così le rilevazioni potranno “penetrare” nelle istituzioni e suscitare in esse quelle reazioni e quelle riflessioni che ne sarebbero il risultato ultimo e il fine stesso.

E infine, in questa logica bisogna sperare che le adesioni delle istituzioni ad Almalaurea aumentino, per poter estendere all’intero settore il raggio delle indagini.

 

Sergio Lattes

Moto retrogrado

Il ministro Giannini nella sua ultima audizione davanti alla settima commissione del senato ha ribadito la necessità di trasformare l’articolazione delle istituzioni Afam, e in particolare dei conservatori, ritenendo necessario ridurre il numero delle istituzioni superiori (quelle presso le quali sono attivi Trienni e Bienni); sembra che i conservatori ai quali sarebbe affidata in un prossimo futuro la formazione superiore (attualmente tutti i conservatori e gli ex istituti musicali pareggiati appartengono a questa fascia) sarebbero 14.

Il numero non è casuale, poiché corrisponde al numero dei conservatori storici in Italia, quelli statalizzati  fino al 1942 (Milano, Napoli, Palermo, Parma, Roma, Firenze, Torino, Cagliari, Bolzano, Pesaro, Venezia, Bologna), cui si aggiunsero il conservatorio di Trieste nel 1953 e quello di Bari nel 1960.

Se ciò avvenisse il numero di posti disponibili per l’accesso ai corsi superiori sarebbe conseguentemente assai minore rispetto alla situazione odierna. Paradossalmente il numero di studenti dei conservatori ha continuato ad aumentare negli ultimi anni (48.830 nell’anno accademico 2014/15)  con una percentuale di studenti stranieri  superiore al 9%.

Sembra quindi utile mettere a confronto alcuni dati generali relativi ai primi anni Cinquanta con i dati odierni.

Nel 1942 la popolazione italiana era di circa 45 milioni di abitanti, cresciuti a 47 milioni nel censimento del 1951; sempre nel 1951 il 12,9% della popolazione era analfabeta, il 17,9% era alfabetizzato senza titoli di studio e il 59% aveva la licenza elementare; a possedere un diploma era il 3,3% della popolazione e solo l’1% era laureato.

Nel 2015 la popolazione italiana si aggira attorno ai 60 milioni; nel censimento del 2001 gli analfabeti erano l’1,5%, i diplomati il 25,9% e i laureati il 7,5% della popolazione (un numero sorprendentemente ancora molto basso!).

Dunque l’operazione “riordino” porterebbe indietro di 70 anni, ma con una situazione generale del tutto mutata.
Se poi si osservano le statistiche che mettono a confronto le diverse aree del paese si vede come nel 1951 la sperequazione tra nord e sud in termini di istruzione era gigantesca e che questa si è enormemente ridotta. Non potrebbe aver contribuito a ciò anche la capillare diffusione (benché non sempre omogenea) degli istituti di formazione musicale in tutto il territorio nazionale? L’accesso all’istruzione (anche all’istruzione superiore) in tutte le aree del paese non dovrebbe essere una priorità per qualsiasi paese democratico? Non dovremmo far sì che cresca il numero di laureati nel nostro paese (anche laureati in musica)?

Il mondo Afam come volontà e rappresentanza. Lettera aperta alle Organizzazioni Sindacali.

La situazione in cui versa (ciò che sarebbe dovuto diventare) il sistema dell’Alta Formazione Artistica e Musicale pone a tutti noi svariate difficoltà persino nel formulare domande; l’oggetto appare sfuggente e a fatica riducibile anche solo a un nome che lo possa identificare con criteri di univocità. Quale nome abbiamo oggi a disposizione per definire non già ciò che fummo, non ciò che saremmo dovuti essere, ma piuttosto ciò che siamo, ciò che stiamo facendo ormai da molto tempo?

L’Alta Formazione non è ancora (ma si può usare questo debole avverbio dopo oltre quindici anni?) quella cui pensò il legislatore nel 1999, ma non è più nemmeno “il mondo di ieri” di un sistema di istruzione quasi meramente professionale; ciò che preoccupa, senza voler fare i corvi, è l’eventualità che il più si sia già impadronito abusivamente anche del futuro. Nevermore?

Uno degli aspetti a nostro avviso maggiormente responsabili del non ancora, e forse anche del non più, è stata la rappresentazione del mondo di cui stiamo parlando come monade difficilmente scomponibile: ogni approccio a suoi aspetti specifici veniva prima o poi scoraggiato o rimandato in nome di una “visione complessiva”. Che però non esisteva.

Un altro dei meccanismi che nel tempo hanno reso impossibile capire di che cosa si stesse parlando è stata la commistione tra le aspettative delle scuole e quelle del personale. Qualcuno quando parlava delle prime sottintendeva anche il secondo, qualcuno no.  Un problema linguistico (l’univocità più o meno condivisa del termine arbitrariamente scelto) ha fatto sì che si parlasse e discutesse a lungo ma invano del futuro: alcuni pensavano che scuole e personale fossero la stessa cosa e che avrebbero seguito lo stesso destino, altri, tra cui ci sentiamo forse di annoverare l’attuale sinedrio ministeriale, hanno fatto qua e là trasparire esattamente il contrario. Per costoro un conto è il futuro del sistema-non-più-non-ancora, un altro conto il futuro dell’attuale personale.

Oggi, e intendiamo davvero in questi giorni, due forze, non sappiamo quanto divergenti, rischiano di dilaniare il sistema-non-più-non-ancora: da un lato l’inerzialità del potere politico e amministrativo (inutile ripetere quanto già lamentato in recenti appelli e denunce), dall’altro l’accelerazione attorno al nuovo assetto dei Comparti di Contrattazione nella Pubblica Amministrazione.

Crediamo che a questo punto sia davvero venuto il momento di abbandonare il vaniloquio monadico, fin qui fallimentare, e di osservare il problema attraverso un approccio più pragmatico: attraverso la scomposizione, anche dolorosa, della presunta monade.

Per questo abbiamo deciso di rivolgerci alla totalità della rappresentanza sindacale del personale del sistema-non-più-non-ancora: per interrogare voi che avete potuto seguire lungo tutti questi anni di traversata del deserto, le intenzioni, le reticenze, le fandonie di cui tutti noi non abbiamo invece quasi mai avuto notizia se non in modo indiretto, sghembo, indecifrabile. Non vi chiediamo quindi di avanzare le vostre ipotesi su misteriose intenzioni ministeriali, di questo davvero non ne possiamo più, ma piuttosto di rispondere, ognuno dalle sue posizioni, a sei semplici domande che riguardano un tema che più di ogni altro rientra nelle vostre competenze: la nuova collocazione del sistema-non-più-non-ancora all’interno o al di fuori dei futuri Comparti.

  1. Come leggete la situazione attuale del sistema alla luce dei dati relativi al rapporto tra corsi e studenti dell’Alta Formazione e corsi e studenti cosiddetti pre-accademici?

  2. Ritenete che sulla base dei numeri di cui sopra sia ipotizzabile pensare, anche non immediatamente, a una reale assimilazione dei profili professionali dei docenti Afam a quelli dei docenti universitari, anche a costo di perderne la funzione di rappresentanza?

  3. Dovesse realizzarsi l’assorbimento dell’attuale Comparto Afam all’interno del venturo Comparto della Conoscenza, quali iniziative pensate di intraprendere, quali aspetti dell’attuale disciplina contrattuale credete si possano difendere e tutelare attraverso le “specificità” di cui parla il Ministro Madia? Quali resistenze verranno messe in atto nei confronti di un livellamento anche economico verso il basso?

  4. Non pensate che il progressivo smantellamento di presidii di specificità come la Direzione Generale Afam (quale che sia il giudizio che se ne può dare), il C.N.A.M., e oggi il Comparto Afam, messo in atto anche attraverso implicite e menzognere promesse di avvicinamento dell’Afam al sistema universitario, sia stato in realtà un dispositivo congegnato appositamente per derubricare la Grande Afam a bad company e contestualmente creare una Piccola Afam del tutto diversa? Quali iniziative avete messo in atto per contrastare questo disegno, qualora lo abbiate giudicato sbagliato?

  5. Non credete che, al netto di valutazioni quantitative, il motivo reale che ha fin qui impedito un avvicinamento del sistema-non-più-non-ancora al sistema universitario non derivi da considerazioni circa il reclutamento, la valutazione, la governance, ma piuttosto da profonde e inaccettabili resistenze messe in atto dal sistema universitario (da sempre sospettoso nei confronti di saperi che non si esauriscano sul piano teorico) oltre che dal mancato riconoscimento da parte del potere politico di questo Paese della centralità, dell’importanza e della dignità della formazione musicale superiore? Quanto siete realmente convinti di questa centralità, di quest’importanza, di questa piena dignità?

  6. Quando si parla di Afam si ha talvolta l’impressione che non si parli in realtà di noi, o di tutti noi. Forse solo di alcuni istituti, forse di nuove Accademie, forse solo di alcuni di noi. Chi sarà l’Afam quando il sistema-non-più-non-ancora sarà finalmente Afam?

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Più utilmente compartir si vuole

Nei prossimi giorni si entrerà nella fase cruciale della trattativa tra l’Aran (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni) e le Associazioni sindacali per la riduzione degli attuali 11 comparti, in cui è diviso il pubblico impiego, a soli 4 come a suo tempo imposti dalla riforma Brunetta.

Il grafico pubblicato nei giorni scorsi da Il Sole 24 Ore illustra molto bene gli accorpamenti previsti e gli ordini di grandezza dell’operazione in termini di personale e di retribuzioni dei diversi comparti (evidenziato in giallo quello AFAM).

Comparti

Come è facilmente comprensibile la principale difficoltà risiede nell’uniformare ambiti contrattuali e retributivi così disomogenei. Il rischio che molte organizzazioni sindacali denunciano è poi l’omogeneizzazione al ribasso delle diverse categorie e la perdita di alcune peculiarità contrattuali.

In particolare il nostro prossimo Comparto della conoscenza comprenderebbe:

1 milione e 30 mila dipendenti della scuola con uno stipendio medio annuale lordo di 29.130 euro.
101 mila dipendenti dell’Università (solo il personale tecnico delle Università, non quello docente) con uno stipendio medio annuale lordo di 42.917 euro
20 mila degli enti di ricerca con uno stipendio medio annuale lordo di 40.039 euro
9 mila dell’alta formazione artistica e musicale con uno stipendio medio annuale lordo di 35.496 euro.

Per tentare di trovare la giusta composizione dei comparti, il Ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, ha recentemente firmato un atto di indirizzo nel quale chiede all’Aran di definire l’accordo nazionale attenendosi ad alcuni criteri direttivi e tra questi quello di “salvaguardare i settori che sono caratterizzati da una spiccata specificità”, un riferimento che sembrerebbe comprendere pienamente il comparto AFAM. Questo sembra far presagire la creazione di nuovi macro-comparti organizzati in spiccati settori che potrebbero mantenere gran parte delle tipicità dei vecchi comparti, almeno per il personale attualmente in servizio.

Un ulteriore problema ancora irrisolto riguarda la questione di non poco conto della rappresentanza sindacale. L’aggregazione dei comporti renderà infatti necessaria anche quella tra i sindacati in quanto occorre una soglia minima del 5% (tra media iscritti e voti) per rappresentare ai tavoli i dipendenti pubblici. Questo obbligherà probabilmente le sigle più piccole e settoriali  a confluire in quelle più grandi.  Un punto che sembra decisivo per chiudere la trattativa come ammette la stessa Aran che, convocando i sindacati per lunedì 4 aprile, ha fatto sapere di aver messo a punto “una proposta che dovrebbe auspicabilmente risolvere i nodi principali ed in particolare il passaggio della vecchia misurazione della rappresentanza all’interno dei nuovi quattro comparti”. Raggiunta l’intesa tra le parti si potrà avviare la trattativa per il rinnovo dei contratti bloccati da quasi sette anni.